5 maggio 2016

Riflessioni su ciò che si dovrebbe

La mia bella è solita nelle sue frasi esprimere opinioni sul comportamento degli altri. Credo sia un comportamento normale (al di là del come e quanto esternarle) quello di avere opinioni sugli altri e sulle loro azioni.

Ascoltandola mi sono reso conto di alcune sfumature che mi hanno aiutato a capire degli snodi di ragionamento importanti. Lei usa spesso il "dovrebbe" riferito al comportamento dell'altro, ma in generale quel dovrebbe può avere almeno 2 sfumature distinte: dovrebbe nel senso che mi aspetto che lo faccia o dovrebbe nel senso che ritengo "giusto" che lo faccia.
Lei usa spessissimo la seconda accezione, mentre io sono più portato ad usare la prima, anche se sporadicamente uso anche la seconda. Questa differenza mi porta a riflettere sul rapporto con "l'Altro", con la a maiuscola, ciò che è fuori da me.

Io mi aspetto un comportamento dall'altro basato su come lo conosco, cioè al di là del mio giudizio: analizzo (parola fondamentale nel mio modo di rapportarmi a tutto) ciò che è fuori da me, cerco di capire le sue dinamiche. In questa fase non c'è (ancora) un giudizio di alcuna natura, ma solo una osservazione, volta a capire i comportamenti dell'altro e da questo dedurne gli schemi di pensiero e i dogmi su cui fonda la sua visione del mondo. Su questa base mi diverto a crearmi dei film sul percorso che abbia portato l'altro a diventare quello che è, ma restano dei divertissement, senza alcun valore né analitico né morale.
Questo uso del dovrebbe è "previsionale". Solo in seconda istanza può diventare giudicante: una volta arrivato a prevedere come si comporterà posso (o anche no) dare un valore morale a questa azione ipotetica.

L'altro approccio è quello di osservare l'altro in virtù delle sue differenze da me (cioè in generale dall'osservatore) o da un ipotetico "giusto"*. Osservo ciò che l'altro dovrebbe fare in base a ciò che la mia morale mi dice che dovrebbe fare e mi costruisco un percorso virtuoso, pertanto ritenendo "buono" chi fa ciò che dovrebbe fare e "cattivo" chi non lo fa.
La mia opinione morale dell'altro osservato mi porta a prevedere se si atterrà al giusto o meno.
Questo uso del dovrebbe è "giudicante" e solo marginalmente può essere "previsionale", poiché la mia previsione dipende dal mio giudizio morale dell'osservato ed è secondaria rispetto all'identificare ciò che è giusto.
Questo è, tra l'altro, l'uso più comune del "dovrebbe" impersonale: si dovrebbe. In questo contesto l'altro non è osservabile, quindi il condizionale è una declinazione di ciò che è giusto, ma non necessario. L'uso previsionale in questo contesto è il classico "ma": in un dato contesto si dovrebbe fare una certa cosa, ma credo che tu dovresti farne un'altra.
Il "dovrebbe" finalistico è a metà strada: "per ottenere un certo risultato dovresti fare una certa azione" può essere tanto una asserzione assoluta (statistica/morale), quando calata nel contesto dell'adattabilità del percorso all'interlocutore.


Al di là del tema del "triplicata scocciant"di Vadacchiana** memoria, che mi causa a volte un certo fastidio superficiale, il problema che vedo nell'esprimere sempre un'opinione giudicante è che rischia di essere il preludio di un mondo di cloni, culturalmente appiattito sull'io parlante***. Tutti dovrebbero agire come è giusto (ossia come io credo sia giusto), appiattendo la multiculturalità che rende possibile il fatto che più comportamenti possano essere contemporaneamente giusti se visti da diversi punti di vista (o giudicati secondo differenti insiemi di valori).
L'ovvio contraltare è che la visione previsionale è terribilmente asettica, sino alla noia (sì va bene, ci hai azzeccato nel prevedere, ma vorrai prima o poi dire cosa ne pensi o apriamo un sito di scommesse su quello che fanno gli altri?!)


Ecco, tutta questa è una pippa assurda e io indubbiamente dovrei smetterla (almeno sino alla prossima).




*Per gran parte della persone la giustizia è una realtà assoluta che non muta in base all'osservatore e che si basa su un sistema di valori assoluto e oggettivo (cioè il loro...). Va da sé che non condivido una simile oggettivazione dei valori, ma che lo dico a fare?

** Vadacchiano da Vadacca, mio primo docente alle superiori di storia e filosofia, con cui non ho mai avuto una grande affinità culturale, ma che fu immensa fonte aneddottica per gli ormai numerosi anni a venire. Del resto anche Bosi, mio secondo docente al liceo di storia e filosofia non fu per me un grande riferimento culturale, ma fu anch'egli fonte immensa di una ricca aneddottca, meno mitologica di quella Vadacchiana, ma allo stesso tempo più diretta. Raccontati così sembrano uno la prosecuzione dell'altro e per questo mi sento di paragonarli secondo la seguente proporzione: Vadacca sta a Bosi come Totò sta a Boldi.

*** divago un attimo, poi spiego: mi sento di dire che il Marxismo dovrebbe essere considerato come un'aspirazione asintotica e non utopistica. La lotta di classe in realtà non dovrebbe mai essere superata (l'utopia dell'uguaglianza fra le persone), ma ridotta sino a un livello di sopportabilità da parte di tutti gli schieramenti (un'assottigliamento asintotico delle differenze, che non saranno mai annullate), perché è proprio il dinamismo generato dal conflitto fra diversi stili/condizioni di vita a innescare il progresso: il desiderio di qualcuno di stare meglio, che si ottiene mediante una differenza con il resto della popolazione ed il conseguente inseguimento da parte degli altri, che non devono essere lasciati indietro, ma non non potranno mai realmente raggiungere (a meno di non superare ribaltando i ruoli) gli inseguiti.
Giusto per dire che l'appiattimento culturale non fa per me...

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