14 novembre 2015

Riflessioni sui fatti di Parigi (anche se non sembra)

Non so bene neppure come commentare. Il mio cinismo e la mia esasperata razionalità mi allontanano dal riflettere sui numeri come discrimine. Cercare il bene e il male fuori da sé, o il giusto e lo sbagliato, l'ho sempre visto come uno specchio del non riuscire a definire da soli la propria via e, ancor peggio, del non assumersi la responsabilità profonda e completa del proprio operato (chi mi conosce profondamente da molto sa che è un elemento fondante della mia visione del mondo in generale e della religione in particolare).
Oggi a un cliente ho detto scherzosamente che sarei stato "quello antipatico". Riflettendo sul significato profondo di questa mia affermazione mi sono reso conto che lo sono perché sono quello che strappa via la poesia dalle situazioni e impone (in primis a me stesso) di affrontarle nude e crude, finendo per trovarcisi nudi a propria volta.

Dio è un po' la poesia del mondo: aggiunge un pezzo di incanto, evoca sensazioni ed atmosfere forti ma impalpabili, rende i concetti apparentemente forti, perché interpretabili e pertanto declinabili secondo l'uso più suggestivo o più conveniente, ma in realtà deboli, perché privi di un loro proprio fondamento. Nella poesia non possiamo conoscere il pensiero del poeta, ma solo interpretarlo, spesso guidati da altri che a loro volta non lo conoscono, ma salendo in cattedra acquisiscono un potere che non dovrebbero avere. Se anche sfuggiamo al gregge, diventiamo noi stessi i nostri stessi manipolatori, in un gioco al massacro che sa di follia schizzofrenica.
Lo stesso poeta non può comunicare il concetto evocato meglio di quanto faccia la sua opera e perde potere di fronte ad eteree interpretazioni dei suoi versi, avvincenti quanto intrinsecamente fasulle (inconoscibilità e incomunicabilità,  dal sapore gorgiano, sono altri elementi caratterizzanti della mia visione del mondo, come noto ai soliti).

Il problema è che la poesia, al di là della sua occasionale bellezza e sintesi comunicativa, se diventa il modo di descrivere la realtà invece che un'espressione artistica a suo corollario, si rivela essere un artificio per giustificare la propria mancanza di conoscenza e soprattutto la resa incondizionata nella ricerca di questa stessa conoscenza. La poesia è e deve essere un piacevole di più, forse il più piacevole dei lussi superflui.

Se la poesia non può essere eliminata senza far crollare il castello che agghinda significa che da orpello si è mutata in fondamenta e che il castello si posa su basi fittizie, se non false.

Tolta la poesia da ciò che ci circonda resta una sola cosa da fare: affrontare il mondo là fuori, senza scuse, senza ipocrisie.

Tolto dio dal nostro mondo resta una sola cosa da fare: affrontare se stessi, senza scuse, senza bugie.

Tolto dio quei morti sono un abominio ingiustificabile, e quindi lo si aggiunge nel sistema per far tornare i conti.
Ma dio non è un numero e non può risolvere nessuna equazione dell'animo umano, perché dio non può che essere poesia.

Oggi dio è una poesia tanto evocativa quanto il vuoto che nasconde...ed eccezionalmente brutta.

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